Questa è la pagina dedicata a Francesco Donadio.
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Freewheelin’ in Rome. La vera storia della prima volta di Bob Dylan in Italia
Bob Dylan in Italia ha suonato spesso e volentieri a partire dal 1984, quando al termine della stagione delle contestazioni e delle molotov ai concerti scese nell’Arena di Verona per due date. All’epoca, però, i “dylanologi” fecero notare che quella di Verona non doveva essere considerata la sua prima trasferta italiana, bensì la seconda: Dylan, secondo una storia che da tempo circolava negli ambienti del folk (ma di cui qualcuno dubitava) era venuto a Roma all’inizio degli anni Sessanta, una sera si era presentato al Folkstudio e (forse) aveva pure suonato qualche canzone. Qualcuno si diceva certo che era stato anche a Perugia, dove studiava la sua fidanzata dell’epoca Suze Rotolo, per un rendez-vous romantico che era il vero motivo del suo viaggio in Italia. Qual è la realtà e quale invece la leggenda? Questo volume si propone di mettere la parola fine – per sempre – a tutte le speculazioni, servendosi di interviste e ricerche documentali condotte con lo zelo di uno storico. Nel contempo mette in fila anche le circostanze e gli eventi che ispirarono il futuro Nobel durante la realizzazione del suo secondo Lp the freewheelin’ bob dylan: la contrastata vicenda sentimentale con la Rotolo, la crisi dei missili di Cuba e le sue prime trasferte al di fuori degli Usa, prima in Inghilterra e poi in Italia. Senza quei tormenti, quegli incontri e quelle suggestioni the freewheelin’ – con in copertina Bob e Suze abbracciati nel gelo di un inverno newyorkese – sarebbe stato un disco molto diverso. Ugualmente importante probabilmente, ma forse non uno dei massimi capolavori musicali del XX secolo.
David Bowie. Fantastic voyage. Testi commentati: 1
La notte del 10 gennaio 2016 la stella del rock registrata all’anagrafe come David Jones e nota al mondo come David Bowie ha concluso la sua orbita terrena e la sua luce ha repentinamente smesso di brillare, con uno di quei coup de théâtre di cui è sempre stato maestro indiscusso. Nulla era trapelato della sua battaglia – ormai evidentemente perduta – con il cancro, che lo aveva assalito nell’estate del 2014. “Blackstar”, suo 28° album di studio uscito due giorni prima della scomparsa, ha immediatamente assunto una luce diversa, si è rivelato per quello che in definitiva è: un testamento, l’ultimo atto di un uomo (prima ancora che un artista) che sta lottando disperatamente con la malattia ma sa di aver già perso la battaglia. Bowie è stato – è, e resterà – uno dei grandi padri di quella che taluni chiamano musica rock, e altri preferiscono definire più ecumenicamente pop. In cinquant’anni di carriera ha attraversato (quasi) tutti i generi e alcuni ha contribuito a crearli. Musica potente, contrassegnata da testi talora misteriosi e di ardua decifrabilità. Del resto, lui è sempre stato un maestro nel mandarti fuori strada, disseminando nei suoi testi molteplici riferimenti e facendo ampio uso della tecnica del «cut-up» di ispirazione burroughsiana. Esiste però una continuità di fondo nell’opera di Bowie e, come egli stesso ha ammesso, «in fondo alla fine ricorrono sempre gli stessi temi, che poi sono i miei interessi» Non può che essere questo, pertanto, il punto di partenza per «decodificare» le liriche di un artista che ha saputo dare una brillante forma artistica ed estetica alle proprie ansie e ai propri travagli esistenziali. Questi, a sua volta, erano i medesimi conflitti vissuti dai suoi fan; e Bowie, in tutti questi anni, non ha mai smesso – e non smetterà mai, nemmeno dopo la morte – di offrir loro quel conforto riassumibile nel metaforico abbraccio con cui concludeva i concerti degli anni Settanta: «You’re not alone!»
Edoardo Bennato. Venderò la mia rabbia
Di Edoardo Bennato oggi si parla davvero (troppo) poco. Eppure, negli anni Settanta è stato forse il più amato tra i cantautori e ha creato almeno una trentina di brani che possono essere considerati dei classici della nostra discografia. Canzoni come “Salviamo il salvabile”, “Un giorno credi” e “Meno male che adesso non c’è Nerone” hanno rappresentato la colonna sonora di una generazione immersa in una confusa realtà quotidiana fatta di austerity, di scontri di piazza e di terrorismo che via via diventava sempre più imprevedibile e feroce. Una carriera tutta in salita, quella di Bennato, che ha dovuto lottare con le unghie e con i denti per conquistarsi il proprio posto al sole. Il cammino, dai primi concertini con i fratelli nella Napoli degli anni Cinquanta passando per il trionfo di San Siro nel luglio 1980 di fronte a 80mila persone in delirio, fino a giungere al recente inno per i 150 anni dell’Unità d’Italia, non è certo stato una passeggiata. Se Edoardo ce l’ha fatta, è stato grazie alla sua (sana) rabbia, e alla ferma convinzione nel proprio talento. “Venderò la mia rabbia” è stato scritto avvalendosi degli archivi a disposizione (dischi, liri, riviste, quotidiani, Teche Rai) e intervistando i più stretti collaboraton del cantautore/rocker di Bagnoli, fratelli (Eugenio e Giorgio) compresi.
David Bowie. L’arte di scomparire. Indagine sugli ultimi dodici anni dell’Uomo delle stelle
Il 10 gennaio 2016 l’improvviso annuncio della morte di David Bowie ha lasciato sconcertati tutti i suoi fan, che fino a qualche ora prima avevano avuto modo di apprezzare il ritorno sulle scene di una star forse invecchiata ma comunque sempre al passo con i tempi, in grado di realizzare negli ultimi mesi di vita due opere che hanno lasciato il segno. La verità è che Bowie era scomparso dai radar già molto tempo prima. A partire dal 25 giugno 2004 – quando sul palco dell’Hurricane Festival a Scheefiel, in Germania, avvertì un lancinante dolore al petto che si rivelò essere un infarto in atto, trattato con un urgente intervento di angioplastica – e per undici anni e mezzo, Bowie aveva smesso di essere la rockstar presenzialista dei decenni precedenti, non rilasciando più interviste e assumendo un bassissimo profilo per uscire di casa solo raramente per eventi selezionati. Un po’ come Greta Garbo, Scott Walker, J.D. Salinger o il nostro Lucio Battisti. Questa è la visione comune. Ma è andata veramente così? Cosa è realmente accaduto in questa dozzina di anni, tra complicazioni di salute, passeggiate in incognito per Manhattan e progetti avviati e poi cancellati? C’è ancora qualcosa che può – anzi che deve – essere raccontato? Questo libro si propone di far luce su quei mesi, tra il 2004 e il 2016, che l’Uomo delle Stelle ha voluto (o dovuto?) passare lontano dalla luce dei riflettori. Una ricostruzione per quanto possibile accurata, sulla base delle testimonianze dei suoi collaboratori e della cronologia dei suoi avvistamenti, dei dodici anni “misteriosi” di David Bowie. Gli anni senz’altro più tormentati e difficili della sua vita e della sua carriera, ma assai meno vuoti di quanto comunemente si pensi dal punto di vista artistico, sfociati negli splendidi ritorni di “The next day” e “Blckstar”, oltre al musical “Lazarus”.
Nel gioco della vita: Follia e utopia nel Rinascimento europeo
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