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Visti da vicino
Polvere. Il caso Marta Russo
Un’inchiesta tanto avvincente quanto angosciante
Il 9 maggio 1997 Marta Russo viene uccisa da un colpo di pistola in un vialetto della città universitaria di Roma. La scena del crimine è particolarmente complessa perché su quel vialetto si affacciano più di cento finestre e passano ogni giorno moltissime persone. L’arma del delitto non si trova, il movente è inspiegabile e l’attenzione mediatica è senza precedenti. Inizialmente i sospetti si concentrano su un bagno al piano terra accanto al magazzino della ditta di pulizie. I dipendenti lo chiamano «il deposito delle munizioni», hanno il porto d’armi e sparano al poligono. Il caso sembra chiuso, quando la scientifica scopre una particella di polvere da sparo sul davanzale dell’aula 6, al primo piano di un edificio arancione. Questo granello di polvere, insieme ad alcune testimonianze contraddittorie, porta alla condanna di due assistenti universitari, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, nonostante non conoscessero la vittima e non avessero un movente per ucciderla. La perizia della scientifica però è sbagliata: il granello di polvere non è con certezza un residuo di sparo, potrebbe essere quello dei freni di una vecchia Panda. Sono passati più di vent’anni e questo caso suscita ancora tante domande, come ha confermato il successo della serie audio da cui il libro è tratto. Chiara Lalli e Cecilia Sala hanno parlato con i protagonisti di questa storia, con i due condannati e con i loro accusatori. Hanno cercato negli archivi i documenti e le registrazioni dell’epoca, hanno analizzato i risultati della perizia con degli esperti. Hanno ricostruito le indagini e il processo, per vedere se tutto tornava. Il risultato è un’inchiesta tanto avvincente quanto angosciante. Ai dubbi specifici, molti dei quali rimangono senza risposta, si aggiunge la più spaventosa delle domande: se il caso Marta Russo fosse un errore giudiziario? Se un giorno fossimo noi a trovarci «schiacciati da una macchina inadeguata e incapace di correggersi»?Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria
Tra il 1943 e il 1945 molte donne aderirono alla Repubblica sociale italiana e si schierarono a fianco dei tedeschi. Una parte di loro erano ‘donne in armi’; inquadrate in bande e brigate nere, parteciparono a rastrellamenti e stragi, commisero omicidi e torture nei confronti di civili e partigiani. Altre erano spie al servizio dei tedeschi o degli uffici politici della RSI, denunciarono ebrei e partigiani contribuendo attivamente alla loro cattura e molto spesso alla loro morte. Nel dopoguerra furono processate e condannate per collaborazionismo. Le storie di queste fasciste saloine (e di alcuni loro camerati) permettono di riflettere su alcuni temi rilevanti per comprendere l’Italia uscita dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale: il rapporto di queste donne con la violenza, le posizioni di dura condanna o di clemenza assunte dalle Corti nei loro confronti, le strategie che misero in atto per negare le accuse o per difendersi, l’atteggiamento dell’opinione pubblica. È una storia che non si conclude nelle aule dei tribunali. Le scelte politiche dei governi del dopoguerra, i numerosi provvedimenti di clemenza (amnistie, grazie, liberazioni condizionali), a partire dall’amnistia Togliatti del 1946, permetteranno, nel giro di un decennio, il ritorno in libertà degli ex fascisti, uomini e donne.
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