Questa è la pagina dedicata a Chiara Stoppa.
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Hate me
Tre adolescenti fragili e complicati alle prese con loro stessi, che cercano di trovare il giusto posto nel mondo, circondati da persone che non sempre riescono a comprenderli. Colonna sonora delle loro vite è il rock, dai latrati di Kurt Cobain alla voce vellutata di Nick Drake, dall’emozione vibrante di Jeff Buckley alle urla orgasmiche di Ian Gillan. Un romanzo fatto di tormento e dolcezza, di rabbia e alienazione, ma soprattutto di fame d’amore. Una fiera celebrazione dell’Antifigo e un omaggio sincero e devoto alla Musica.
Il ritratto della salute (alla faccia del cancro)
Chiara Stoppa, attrice, ha solo ventisei anni quando, nel 2005, le viene diagnosticato un tumore. Dopo due devastanti cicli di chemioterapia giunge il verdetto che non avrebbe mai voluto sentire: il suo male guarisce nell’85 percento dei casi, ma lei rientra nell’altro 15 percento. L’unica speranza, ora, è un trapianto. Chiara, che ha vissuto l’intera esperienza della malattia come sotto una campana di vetro, inizia a pensare a cosa dire ai suoi amici, alle persone a lei care, a come salutarle per sempre. Ma a quel punto, dopo un anno di torture, quella stessa campana di vetro si infrange: Chiara decide che è meglio alzarsi dal letto, riprendere possesso del proprio corpo, decide, insomma, che è meglio vivere. Così avvia un percorso di guarigione che ha del miracoloso, se si considera che è qui a raccontarlo. E in questo racconto, in cui la paura non riesce mai a spegnere del tutto la speranza, Chiara si mette in gioco con l’umiltà di dire che la sua è solo una delle scelte possibili. Un tumore ti cambia: cambia la tua routine, il tuo modo di vivere, di respirare, di stare con gli altri. Ma si può scegliere come relazionarsi con esso, ascoltando il proprio corpo per decidere quale sia la soluzione più adatta. Le persone sono diverse, e diverse possono essere le cure. Dalla sua esperienza Chiara Stoppa ha tratto un monologo teatrale privo di retorica ma pieno di energia, di ironia, con una carica vitale contagiosa.
Chiara e scuro
San Maurizio al Monastero Maggiore
San Maurizio: il tempio della pittura rinascimentale nel cuore di Milano, tra il Castello Sforzesco e Santa Maria delle Grazie. Una chiesa, annessa a un grande monastero benedettino femminile, la cui storia si segue dall’edificazione, a ridosso delle mura dell’imperatore Massimiano e del circo romano, fino alla ricostruzione al principio del XVI secolo e alla soppressione del cenobio nel 1798. Dalle decorazioni del primo Cinquecento, nell’orbita dei maggiori artisti del momento come il Bergognone, Zenale e il Bramantino, alla saga dei Luini: Bernardino e la sua bottega a cui si devono la grande parete divisoria e la visionaria cappella Besozzi, dove forse si nasconde il criptoritratto della contessa di Challant, la sventurata fedifraga che fa uccidere uno dei suoi amanti e per questo è decapitata sul rivellino del Castello. Dopo Bernardino è la volta dei suoi figli: Giovanni Pietro e Aurelio Luini soprattutto, a cui spettano la cappella Bergamini (in memoria della moglie del figlio di Cecilia Gallerani, l’amante di Ludovico il Moro, la Dama con l’ermellino immortalata da Leonardo) e non pochi altri significativi interventi tra cappelle, controfacciata delle monache e pontile. Pontile che confina con uno degli organi meglio conservati della città, affacciato direttamente sul coro monastico e ancora adesso in uso per rassegne e concerti. Ma c’è anche una magnifica tela di Antonio Campi montata per volere di Carlo Borromeo.
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