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Il nipote di Rameau-Jacques il fatalista
Un mélange irregolare di temi e registri narrativi animano la vivace conversazione tra Diderot e il geniale, spregiudicato nipote del celebre musicista; con la sua “duplice coscienza, di intellettale borghese e parassita”, questi offre spunti all’autore per una ricerca sulla vera natura dei comportamenti sociali e per un’analisi impietosa del ruolo e delle possibilità dell’intellettuale contemporaneo.
Teatro: Il figlio naturale-ll padre di famiglia-È buono? È malvagio?
Fin da quando, giunto a Parigi dalla provincia, aveva pensato seriamente di intraprendere la carriera di attore, Diderot nutrì per il teatro un costante interesse sia sul piano dell’elaborazione teorica sia della pratica di scrittura. La scena era ai suoi occhi un formidabile strumento di critica sociale perché «ogni popolo ha dei pregiudizi da distruggere, dei vizi da colpire, delle ridicolaggini da screditare» Ammiratore di Shakespeare e di Molière, con le tre commedie raccolte in questo volume – “Il figlio naturale” (1757), “Il padre di famiglia” (1758), “È buono? È malvagio?” (1781) – il nume tutelare dell’Encyclopédie gettò le basi del moderno dramma borghese: le storie sono ambientate nel presente e hanno per protagonista non più l’aristocrazia ma l’emergente classe media che rivendica la dignità del commercio e del lavoro manuale. Fra le tre pièces, spicca per la perizia della composizione la più tarda e anche la più amara; l’ambivalente Monsieur Hardouin – intelligente e ingenuo, generoso e crudele – ordisce una serie di intrighi la cui morale è sempre la stessa: in una società corrotta, come quella francese del tempo, per riuscire a fare del bene è inevitabile essere malvagi.
Paradosso sull’attore
Denis Diderot, una delle grandi menti dell’Illuminismo, ideatore e fondatore dell'”Encyclopédie “, tra le sue molteplici attività e interessi ebbe un amore per il teatro che durò tutta la vita e che lo portò a scrivere e mettere in scena, con alterna fortuna, diversi drammi. Ma il suo capolavoro, in questo campo, consiste nel “Paradoxe sur le comédien” all’epoca (1770-1773) la più importante teorizzazione sull’arte dell’attore. Un libro fondante che sta alla recitazione come la “Poetica” di Aristotele sta alla drammaturgia. Scritto in forma dialogica e discorsiva, di facile lettura, “Il paradosso” deve il titolo a un’affermazione controcorrente rispetto alle idee del suo tempo. Diderot sostiene infatti che l’attore è tanto più grande quanto più usa la testa e meno la sensibilità innata. Il talento da solo non basta, serve l’innesto della tecnica è della cultura. Il grande attore non è colui che si lascia andare alle proprie istintive emozioni, ma chi sa ricostruirle attraverso un lavoro a mente fredda. L’unico metodo necessario a garantire la possibilità di interpretare più ruoli e differenti sensibilità e soprattutto capace di emozionare ogni volta gli spettatori. Per questo, dice Diderot, sarebbe necessario creare scuole di teatro che preparino gli attori al fine di non considerarli soltanto bruti dalla straordinaria e istintiva sensibilità. Come si vede, “Il paradosso dell’attore” è un trattato ancora attuale… Postfazione di Jacques Copeau. Con un saggio introduttivo e cura di Paola Degli Esposti.
La monaca
Figlia adulterina d’una famiglia aristocratica, Suzanne è costretta a farsi monaca. La sua incrollabile volontà di ribellione e infine la fuga non sortiscono però liberazione: la sventurata è perseguitata e torturata dalla riprovazione della società: la società delle famiglie fondate sul patrimonio, dei conventi fondati sulla violenta complicità tra guardiane e recluse, della religione a garanzia della frustrazione dei bisogni vitali. Sostenuto da un’analisi psicologica audace e penetrante, è considerato uno dei migliori racconti di Diderot, focoso, misurato e ravvivato da una profonda umanità.
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