Questa è la pagina dedicata a Tommaso Landolfi.
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Racconto d’autunno
La pietra lunare. Scena della vita di provincia
Il libro si apre su una “scena della vita di provincia”, grottesca e quasi allucinata, finché “dal fondo dell’oscurità” il protagonista si sente guardato da “due occhi neri, dilatati e selvaggi”, che lo gettano nello stupore e nel terrore. “Una ragazza ad ogni modo” osserva subito dopo. Così ci appare Gurù, la fanciulla-capra, che presto condurrà il giovane Giovancarlo e il lettore fra i “lunari orrori” di creature diafane, fantomatiche, e fin nelle viscere della terra, nel regno arcano delle Madri. Con “La pietra lunare”, suo primo romanzo (1939), Landolfi presentava già tutti i registri fondamentali di un’opera che rimane, come scrisse Zanzotto, “uno dei punti di riferimento più radiosi del nostro Novecento letterario”.
Dialogo dei massimi sistemi
Perché Maria Giuseppa, “una cosa liscia, senza fianchi e senza petto”, è morta per Giacomo, giovane blasfemo? E che cosa nasconde il sogno di sangue di Rosalba, “fanciulletta di forse dodici forse tredici anni”? Misteri landolfiani, aberrazioni, sub- e surrealtà. E già affiorano, in questi racconti cui Landolfi affidò, nel 1937, il proprio esordio letterario, le ossessioni che ne connoteranno tutta l’opera.
Le più belle pagine scelte da Italo Calvino
Dopo aver setacciato le raccolte pubblicate da Landolfi nell’arco di oltre quarant’anni (da “Dialogo dei massimi sistemi” del 1937 a “Del meno” del 1978), Calvino scelse da ultimo 53 testi. Organizzati in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti spunti critici essi consentono di cogliere in tutte le sue sfaccettature un’opera che ha sul lettore l’effetto “d’unghia che stride contro un vetro, o d’una carezza contropelo, o d’una associazione di idee che si vorrebbe scacciare subito dalla mente”. Insomma: il vero Landolfi, quello che “preferisce lasciare nell’opera qualcosa di non risolto, un margine d’ombra e di rischio: il Landolfi che sperpera le sue puntate d’un colpo e le ritira bruscamente dal tavolo con gesto allucinato del giocatore”.
I russi
Nel 1928 Landolfi è studente all’Università di Firenze. Dai corsi ufficiali, però, si tiene “a rispettosa distanza”: la sua unica, “beata”, occupazione è parlare per notti intere di letteratura con gli amici Carlo Bo, Leone Traverso e Renato Poggioli. “Lì era la nostra università,” ricorda “a quella vera non andavamo mai”. E grazie a Poggioli che scopre la letteratura russa: e in questa disciplina, che a Firenze allora nessuno professava, si laureerà nel 1932 con una tesi sull’opera di Anna Achmatova. Intanto, nel 1930, sono usciti un racconto, Maria Giuseppa, e la recensione al Re Lear delle Steppe di Turgenev: il suo doppio destino – di scrittore e di slavista – è segnato. Ma slavista è forse il termine meno adatto. Incontrando la letteratura russa, Landolfi incontra in realtà una parte di sé: e l'”uomo superfluo” – in cui confluiscono senso di estraneità, stanchezza spirituale, profondo scetticismo – diventa uno specchio nel quale non cesserà di guardarsi. Per non parlare del dualismo morale, dei fantasmi, dell’innocenza russa, di Gogol’ e Dostoevskij, che entrano stabilmente fra gli agenti attivi della sua immaginazione, per poi rifluire nella narrativa. Non meraviglia allora che in Russia Landolfi non sia mai andato: quel paese era per lui, e sarebbe rimasto, un’immagine, la matrice di una letteratura consegnata a un “eterno romanticismo”, nonché di scrittori irriducibili agli schemi, capaci di ricreare da capo il proprio mondo.
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